Isteria da Coronavirus

In questo periodo assistiamo sconcertati a quella che si può definire a tutti gli effetti una “isteria da Covid”.

Se un anno fa in questo periodo le restrizioni ci univano, sognando il momento in cui avremmo potuto passare le festività assieme, oggi il clima è completamente diverso.

I litigi tra amici e familiari hanno preso il posto a quelle tra No vax a Pro Vax, complice la paura di quello che sembra un male che non sconfiggeremo mai.

La fiducia nel vaccino ha pian piano lasciato il posto alla paura, di fronte al sempre più crescente numero di positivi anche tra i vaccinati; quelle che prima erano felici e spensierate cene tra amici ora diventano motivo di ansia, scontri di opinioni, sguardi torvi e biasimo, per chi non la pensa come noi.

Non si parla più di litigare con chi non vuole vaccinarsi, perché ormai un lieve punto di vista diverso nell’ambito delle tempistiche dei vaccini, di adulti e bambini, scatena nell’altro la credenza che di fronte si abbia una persona cretina, che sottovaluta la situazione, che non è abbastanza allarmato e in panico.

Siamo diventati dei despoti delle opinioni. Solo chi la pensa al 100% come noi è degno della nostra stima, della nostra amicizia, del nostro rispetto.

E così, rapporti basati sull’amicizia e sul rispetto reciproco da anni, si sfaldano, e ognuno si sente superiore all’altro.

Nessuno pensa che tutti siamo accomunati dalla paura, ma che ognuno la affronta a modo proprio. Chi sottovalutando il rischio, quindi rifiutando di provarla; chi cercando di non farsi prendere dal panico, quindi ponderando scelte e azioni, e chi è più debole e non riesce a reggere la pressione di questo periodo.

Ci stiamo isolando, ma non è colpa del virus. E se e quando finalmente questo virus non sarà più un problema mondiale, non sarà facile ricucire i rapporti che abbiamo logorato in questo periodo, le amicizie che abbiamo rotto, le brutte parole dette.

Vittime due volte

La costruzione sociale del ruolo della vittima definisce tale un soggetto innocente, indifeso, destinatario di ingiustizie e violenze incomprensibili. Storicamente prevede che essa sia associata a diversi requisiti per poter essere definita tale: innocenza, purezza, superiorità morale, assenza di responsabilità. Questa definizione è quella socialmente più accettata, più diffusa a livello mediatico, che però semplifica, dividendo il mondo tra “buoni e cattivi”, “meritevoli e non”. La “vittima”, in questo contesto, non ha molto scampo se non incorrere in quel processo chiamato “Vittimizzazione secondaria”, ossia sentirsi nuovamente “parte lesa” durante il procedimento di denuncia, che, come abbiamo ormai capito anche dagli attuali fatti di cronaca, comporta biasimo, giudizio morale, etichettamento, analisi della propria moralità e via dicendo.

Se analizziamo la parola “vittima”, dal latino victima, capiamo come vi sia una convergenza di due termini: da una parte il termine “vincire “, che rimanda ad una condizione di immobilità, impossibilità di reagire tipica dei soggetti sacrificali; dall’altra abbiamo il termine “vincere“, ossia l’azione di colui che ha vinto all’interno di un conflitto. Al soggetto a cui viene imposta l’etichetta di “vittima”, perciò, non resta molto da fare; entrerà a far parte di un retaggio culturale sfavorevole, col quale è difficile empatizzare; una condizione di patimento che chiama le altre persone a prendere le distanze.

In letteratura ormai si tende infatti a parlare di “persona offesa”, piuttosto che di vittima, non solo per l’impatto che ha sulla società e quindi sul rischio di vittimizzazione secondaria, ma soprattutto per rispetto a quelli che possono essere ostacoli personali (la difficoltà a riconoscersi come vittima, per ciò che comporta, ossia sentirsi vulnerabili, deboli e indifesi) e socio-culturali (parametri “accettabili” per definire una vittima come tale, ossia quelli citati sopra).

Riassumendo: la persona offesa, oltre alle ripercussioni fisiche e psicologiche alla quale è stata sottoposta con il danno arrecatole, si troverà a dover pensare:

-alle difficoltà che incontrerà per ottenere giustizia;

-ai costi elevati da sostenere (in termini economici e di tempo)

-alla posizione scomoda che dovrà assumere (testimonianza all’interno del procedimento penale)

-al timore dell’insuccesso (non essere riconosciuta “parte lesa”)

-all’esposizione a nuove forme di vittimizzazione (la suddetta vittimizzazione secondaria) da parte delle istituzioni, dei media, della società.

Ci chiediamo ancora come mai le persone offese non denuncino subito l’accaduto? Siamo pronti a comprendere che vi è una netta distinzione tra quelle che noi consideriamo “vittime” che in realtà fanno parte di un retaggio arcaico di idealizzazione, e le “vittime reali”?

Tantissima strada c’è ancora da fare, perché spessissimo, per non dire sempre, chi si trova in questa condizione si trova a perdere la fiducia più volte: nell’altro, nelle istituzioni, nella società e, cosa più grave, in se stessa.

La depressione da festività

Ansia, pensieri disturbanti, insonnia, agitazione, frustrazione, tristezza, pigrizia.. sono solo alcuni dei sintomi che diverse persone ravvisano durante il periodo delle festività natalizie.

Il fenomeno, chiamato “Christmas Blues“, colpisce molte persone, che per svariati motivi non riescono ad uniformarsi al clima gioioso che il Natale si pensa dovrebbe portare.

Quali possono essere i motivi scatenanti tale sintomatologia?

Innanzitutto l’aver subìto un lutto. La mancanza di una persona cara diventa assordante durante le festività, che per definizione sono sinonimo di “famiglia”, “calore”, “presenza”. Chi ha perso qualcuno, in questo periodo sentirà maggiormente il vuoto lasciato da esso, provando malinconia e talvolta rimpianti per come si è utilizzato il tempo assieme e rammarico per il tempo che non si ha più. Questo senso di disagio talvolta può diventare così intenso da portare al ritiro sociale, alla depressione, al “congelamento” dell’attività.

Le condizioni socio-economiche. Chi non può permettersi economicamente di festeggiare come vorrebbe, specialmente se sono presenti dei figli, può vivere il Natale con ansia, timore, vergogna e senso di colpa; aggiungerei ingiustamente amplificata dalla commercializzazione del periodo. Chi sta vivendo, o ha vissuto, una separazione dal partner, può vivere molto male questo periodo, specialmente in presenza di figli, per il rammarico ed il senso di colpa di ciò che non si ha più, o non si può “dare” ai figli: una famiglia unita, tanto commercializzata e idealizzata durante le feste.

Chi è lontano per lavoro e in questo periodo di emergenza non può tornare, o non vuole tornare, per paura di danneggiare i propri cari; di rimando chi ha i propri cari lontani, e non può ricongiungersi ad essi per i medesimi motivi.

L’ansia può derivare invece proprio dal doversi ricongiungere con i parenti, sentendosi oggetto di analisi e domande scomode; il senso di frustrazione e disagio può nascere da situazioni in cui non ci si sente sereni, soddisfatti o “adeguati agli standard” imposti; oppure dal dover “fingere” in situazioni che sentiamo false e stereotipate solo perché il periodo impone “felicità”.

Questi sono solo alcuni dei motivi che possono portare al Christmas Blues, ma ciò che accomuna le diverse situazioni è proprio il senso di disagio, la sensazione di solitudine e tristezza associata a questo periodo.

Cosa fare se siamo di fronte ad un nostro caro o siamo noi stessi vittima di questo stato d’animo?

Sicuramente il supporto della rete familiare e amicale è prezioso e non va sottovalutato; avere qualcuno con cui condividere le nostre sensazioni è importante e permette di non isolarsi. Anche se l’emergenza che stiamo vivendo non permette molti rapporti sociali, cercare di non rimanere soli in questo periodo è fondamentale.

In alcuni casi, però, la rete sociale non basta per superare questo periodo, ed in questi casi l’aiuto psicologico è essenziale per sviscerare contenuti emotivi, cause ed eventuali resistenze date da possibili sensi di colpa collegati. Se i pensieri dovessero diventare molto disturbanti e invalidanti nella rete lavorativa e sociale, il/la terapeuta saprà indirizzarvi ad un medico psichiatra competente per affiancare, alla terapia psicologica, una farmacologica, per non sottovalutare ciò che si sta provando.

Non si tratta di spaventare le persone, ma di prestare più attenzione, in quanto secondo alcune fonti il tasso di suicidi si innalza proprio durante il periodo delle festività natalizie, mentre secondo altre il picco avviene subito dopo l’inizio dell’anno nuovo. In ogni caso è innegabile che una buona fetta della popolazione soffra di questo disturbo in concomitanza di questo periodo dell’anno.

Riassumendo: la pressione mediatica, sociale e familiare può essere molto forte in questo periodo; non sottovalutare come ci si sente è importante e chiedere aiuto non è mai sintomo di debolezza, ma una strategia efficace affinché sia davvero per tutti un Buon Natale.

autrice Dott.ssa Cobianchi Desirèe

I contorni della violenza

Oggi, nella giornata contro la violenza sulle donne, vorrei soffermarmi su quel fenomeno sommerso, spesso taciuto perché meno evidente o evidenziabile, ma altrettanto pericoloso e subdolo: il maltrattamento psicologico, perché VIOLENZA non è solo fisica ma spesso è soprattutto psicologica.

Sebbene la maggior parte delle violenze avvenga a discapito di donne e da parte di uomini, il maltrattamento psicologico non ha genere e non ha età; può colpire tutti, indistintamente.

I segnali che dovrebbero farci rizzare le antenne sono diversi, ma vi sono alcuni comportamenti tipici, che si riscontrano nel maltrattamento psicologico: 1. Denigrare, sottovalutare, svalutare, sabotare ogni azione che sia volta all’indipendenza e all’autorealizzazione. Insultare, urlare, disprezzare e ridicolizzare sono alcuni dei modi che utilizza chi maltratta psicologicamente, facendo sentire l’altro una persona non degna, ma conseguentemente grata al maltrattante per stargli accanto nonostante i suoi difetti.

2. Nonostante il continuo ledere l’autostima dell’altro, chi maltratta è una persona estremamente gelosa nei confronti del maltrattato. Limitare la libertà personale, isolare da legami e amicizie è un altro modo che viene messo in atto per tenere la persona legata a sé.

3. Minacciare costantemente di abbandono e provocare continui sensi di colpa, sfruttando i punti deboli della persona.

4. Far credere “pazza” l’altra persona, quando essa prova a ribellarsi, a chiedere aiuto o a discutere sull’atteggiamento del maltrattante. Diventa molto importante ricordare questo punto, poiché il maltrattamento psicologico fa dubitare di se stessi e della propria sanità mentale.

Il maltrattamento psicologico è subdolo, non è evidente come quello fisico, ma altrettanto traumatico, doloroso; lascia segni evidenti, non sul corpo, ma sulla psiche. Il rischio più frequente per chi é vittima di maltrattamento psicologico è di non venire presi sul serio, andando così ad aumentare la percezione di se stessi come “sbagliati” o “esagerati”. Per questo chi è preposto ad accogliere le richieste di aiuto DEVE essere formato anche su questo tipo di problematica, sensibilizzato su ciò che la persona sta vivendo, e formato nel sapersi rapportare di conseguenza.

Oltre alla formazione specifica degli operatori, anche l’informazione gioca un ruolo chiave, poiché fa sì che chi sta subendo questo tipo di maltrattamenti si riconosca, o lo facciano le persone vicine, in modo da fare fronte comune per affrontare la situazione tempestivamente, poiché il maltrattamento psicologico è come un’edera velenosa: mette radici profonde e anche se sradicata lascia tracce per sempre.

Il potere della paura

Il fenomeno degli influencer è da qualche anno ormai parte del nostro quotidiano; seppur con un nome diverso, gli influencer sono però sempre esistiti, e dobbiamo riconoscere loro determinate competenze che li hanno portati a “sfondare” nel mondo social ed entrare nel cuore e nelle pagine da seguire delle persone.

Il fenomeno di cui parliamo oggi, però, riguarda quello a cui stiamo assistendo recentemente, ultimo caso quello della signora “Angela da Mondello” che a suon di “Non ce n’è Coviddi” ha raggiunto fama e guadagni economici.

da Viterbix

Dobbiamo distinguere tra chi, seppur ad una superficiale prima analisi non sembra avere competenze particolari, ma in realtà possiede capacità di marketing e altre utili per questo “nuovo” lavoro, e chi invece è vittima dell’effetto Dunning-Kruger.

Questo effetto, studiato da moltissime persone, ma teorizzato ufficialmente solo nel 1999, indica quel curioso meccanismo per cui chi è incompetente non si accorge della propria incompetenza, ma anzi, attraverso un fenomeno di distorsione cognitiva, tende a sovrastimare il proprio sapere, sottovalutando il sapere altrui e, conseguentemente, a fare dichiarazioni/azioni totalmente assurde, senza autocritica e senza mai essere basate su fatti e conoscenze.

Come mai allora tante persone seguono questi soggetti di dubbia “cultura”?

Il fenomeno in questione, come la psicologia sociale ci insegna, spiega come le “masse” perdano le capacità cognitive che normalmente contraddistinguono i singoli individui, quando questi si riconoscono in parte nelle idee che altri soggetti condividono, omologandosi in nome di un denominatore comune.

Non si può riconoscere a questi soggetti un qualche tipo di “intelligenza strategica”, poiché il far leva sulle paure della gente è puramente casuale, ma colpisce nel profondo chi prova tali sentimenti, creando inesorabilmente un seguito e dei seguaci.

Esistono da sempre questi fenomeni, persone che nostro malgrado diventano famose senza aver particolari “doti”, ma anzi, proprio per le loro “mancanze” diventano “fenomeni da baraccone” seguiti da molte persone.

Quello che è più preoccupante è chi, consapevolmente gioca con le emozioni; oggi, sempre più, assistiamo ad un accanimento quasi patologico sulle paure delle persone: da come vengono diffuse le notizie, la scelta dei dati da condividere, i riflettori sempre sulle notizie negative, le immagini, la propaganda basata sulla repressione.

Stiamo creando fobie sociali che difficilmente ci lasceremo alle spalle una volta terminata questa emergenza, che senza dubbio esiste, ma che dal punto di vista psicologico sta diventando più pericolosa del virus stesso.

Prendersi cura della salute psicologica, oltre che di quella fisica, delle persone, servirà adesso, per affrontare questo periodo, ma soprattutto dopo, in quella che sarà una ripartenza difficile, lenta e faticosa, affinché le persone non si sentano sconfitte, diffidenti, demotivate e abituate a vedere solo gli aspetti negativi e catastrofici che la vita gli sottopone.

Quindi alla luce di queste considerazioni, il fenomeno di “Angela” e molti altri, appare sotto una nuova luce, quella della paura.

Cavalcare tale emozione non è mai positivo, rifugiarsi nelle “bugie innocenti” non è mai sano, mentre tutelare le informazioni, il contagio sociale di diffidenza e paura, è ora, più che mai, necessario e vitale. Non ne usciremo più forti, se continuiamo così, ma solo più arrabbiati e fragili.

Bambini e tamponi..

In questo periodo purtroppo sono sempre di più i bambini che devono essere sottoposti al tampone. La scelta in molti casi, ricade in raggruppamenti di classe e interi istituti, che scaglionati vengono sottoposti al tampone rapido, ossia in entrambe le narici e non nella gola.

Spesso assistiamo a urla, grida, pianti disperati che terminano con il dover tenere fermi con la forza il bambino, rischiando che si faccia male, oltre che traumatizzandolo su quella che invece può essere una pratica rapida e indolore.

Siamo noi adulti a dover rassicurare i bambini, spiegando nel dettaglio cosa succederà, senza mentire, perché la nemica più grande è la paura, e per natura abbiamo paura di ciò che non conosciamo.

Se anche a voi è capitato di dover fare un tampone, potrete sicuramente descriverlo bene, altrimenti di seguito una serie di frasi rassicuranti ma anche chiare, per il bambino, a seconda delle età; perché la conoscenza è, di conseguenza, la più grande nemica della paura.

“é come un cotton fiocc, un pochino più lungo, che va su per il nasino”; Bonus: “come fai col ditino”

“non fa assolutamente male, ma darà un po’ fastidio; è come un solletichino e ti farà lacrimare gli occhi un pochino”

” l’importante è che tu stia fermo, ti verrà spontaneo muoverti un pochino, per via del solletichino che sentirai, ma devi stare fermo altrimenti rischi di farti male”

“conta fino a 3 e sarà già finito, se ti muovi rischi che lo debbano rifare”

Queste sono ovviamente solo alcuni spunti, testati, che possono tranquillizzare il bambino, ma ognuno può adattarle ai propri figli. Il concetto è che spesso tendiamo a pensare che nascondere loro le cose sia meglio, ad esempio dicendo “non fa niente”, oppure non dicendo cosa si sta andando a fare; al contrario, questo non fa altro che aumentare le loro fantasie, e applicato a questo contesto saranno fantasie di paura e sfiducia nel genitore.

Diamo fiducia ai nostri bambini, sanno ascoltare e capire; purtroppo questi iter resteranno nel nostro quotidiano ancora per un po’, ma insegnare ai bambini come affrontare le paure rimarrà nella loro mente per sempre.

Autore: Dott.ssa Desirèe Cobianchi – Psicoterapeuta

Comunità per minori

Comunità per minori TAM

Autore: dott.ssa Desirèe Cobianchi – Psicologa Psicoterapeuta

Le comunità per minori sono sempre state negli anni soggette a stigma e critiche; probabilmente dovute al fatto che esse vengano associate agli ormai superati istituti, dove anche i bambini molto piccoli venivano inseriti, con gravi danni sul versante dell’affettività, attaccamento e rappresentazione di sé.

Le comunità per minori sono pensate per specifiche tipologie di ragazzi, spesso dai 14 ai 17 anni, ossia per quella fascia d’età che purtroppo non è molto gestibile dalle famiglie affidatarie, o non accettata, e che presentano quadri clinici ben precisi e difficoltà che solo una struttura comunitaria può cercare di superare. Talvolta possono essere accolti anche bambini più piccoli, che per motivi ben precisi non sono in grado di sopportare un affidamento familiare; si pensi ad esempio a bambini abusati, che potrebbero mettere in atto atteggiamenti sessualizzati nella nuova famiglia affidataria, vissuti di angoscia, rabbia e aggressività, che minerebbero la serenità del nucleo, specie se in presenza di altri minori.

Le comunità per minori, se ben gestite, possono davvero fare la differenza per quei minori che hanno una famiglia di origine in difficoltà, non presente e/o non adeguata, rischiando di lasciare il minore abbandonato a se stesso e mettendolo in pericolo di vita. Ovviamente, visti i recenti fatti di cronaca, la difficoltà delle strutture è riuscire a coordinare gli interessi del minore con obiettivi realistici e aspettative della famiglia, se presente.

Queste comunità non possono e non devono essere parcheggi per ragazzi in difficoltà, ma luoghi terapeutici di accoglienza, confronto tra pari e con professionisti, con figure adulte di riferimento con le quali sperimentare fiducia, sicurezza e affetto, essenziali per il loro percorso futuro al di fuori della struttura. Per questo non dobbiamo mai dimenticarci l’importanza della formazione; gli operatori hanno un ruolo cruciale nella buona riuscita dei progetti di vita di questi ragazzi, pertanto devono essere formati, supportati, supervisionati e seguiti in questo difficile compito che ricoprono.

Non possiamo lasciare al caso la scelta degli operatori, non possiamo lasciarli soli a confrontarsi con il disagio e con le provocazioni che ovviamente questi ragazzi mettono in atto, per la profonda sofferenza che portano dentro di loro, ma formare gli operatori ad essere empatici, a tollerare le frustrazioni, a non mettersi in simmetria con questi ragazzi che alla fine chiedono solo, seppur con modi non sempre chiari, di essere aiutati.

Rabbia e paura ai tempi del Covid

Il periodo che stiamo vivendo sta mettendo a dura prova tutti quanti. Chi ha avuto contatti con positivi, o ha visto i propri cari morire per questo virus prova paura, per la propria salute e quella dei propri cari, rabbia, per chi non rispetta le norme e grida al complotto e alla dittatura. Chi non è mai entrato in contatto col virus prova rabbia per le restrizioni e paura di arrivare ad un nuovo lock down. Il denominatore comune sono queste due emozioni, rabbia e paura, che creano uno stato d’ansia che va a minare la fiducia nel prossimo, i contatti sociali, crea diffidenza, malumori e litigi. Affrontare questo periodo non sarà facile per nessuna delle due fazioni, ma allenarsi a gestire l’ansia si può, grazie al supporto psicologico, che mira a comprendere le paure sottostanti e la rabbia che questo periodo scatena dentro di noi. Non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto, perché anche prendersi cura del nostro benessere psicologico significa fare la propria parte per superare al meglio possibile questo momento.

Autore: Dott.ssa Cobianchi Desirèe – Psicologa Psicoterapeuta

I Sintomi e la loro funzione

Spesso i pazienti arrivano con un sintomo ben preciso dal quale vogliono prendere le distanze. Altre volte la situazione é annebbiata, bisogna togliere uno strato alla volta, per capire da dove tutto ha avuto inizio, come in quei quadri dove sotto si cela il disegno originale. Quando durante le prime sedute si struttura quello che si chiama “genogramma”, lo scopo è comprendere le dinamiche familiari e comprendere qual è la funzione primaria e secondaria del sintomo che il paziente porta. Aiutare a comprenderlo non significa risolvere il problema ma fare un’ipotesi del funzionamento della persona e delle sofferenze che hanno portato alla strutturazione del problema. Il sintomo é sempre funzionale a qualcosa, capirlo ci aiuta a trovarne il senso, ridimensionarlo. La terapia aiuta a dare significati nuovi alle cose, uno sguardo per comprendere il punto di partenza e vivere meglio il nostro presente.

Autore: Dott.ssa Cobianchi Desirèe – Psicologa Psicoterapeuta

La tutela dei bambini ai tempi del Covid

La tutela dei bambini parte da una semplice ma grande consapevolezza: siamo il loro specchio. Ansie, paure, comportamenti che normalmente attuiamo, sono più potenti di parole, discorsi e regole. Mai come in questo periodo i bambini hanno bisogno di essere rassicurati, attraverso i nostri comportamenti, su quanto sta accadendo e su cosa li aspetterà al rientro a scuola, poiché questi mesi di isolamento li hanno portati ad aver ancora più voglia e bisogno di socialità. Ripartire per loro, così come prima lo è stato per noi, potrebbe essere quindi un momento di forte impatto emotivo. Sta agli adulti di riferimento trasmettere serenità per le nuove regole e non ansia o paure. La resilienza dei bambini è più forte di quanto si pensi, anche più di quella di noi adulti. Non nascondiamoci dietro ai loro diritti per sfogare le nostre paure, seppur naturali e comprensibili. L’aiuto psicologico in questo periodo potrà servire a tutti, in un’ottica di “aiutarci, per aiutarli” per ripartire con sorriso e serenità, i doni più grandi che possiamo fare ai nostri bambini.

Autore: Dott.ssa Cobianchi Desirèe – Psicologa Psicoterapeuta