Vittime due volte

La costruzione sociale del ruolo della vittima definisce tale un soggetto innocente, indifeso, destinatario di ingiustizie e violenze incomprensibili. Storicamente prevede che essa sia associata a diversi requisiti per poter essere definita tale: innocenza, purezza, superiorità morale, assenza di responsabilità. Questa definizione è quella socialmente più accettata, più diffusa a livello mediatico, che però semplifica, dividendo il mondo tra “buoni e cattivi”, “meritevoli e non”. La “vittima”, in questo contesto, non ha molto scampo se non incorrere in quel processo chiamato “Vittimizzazione secondaria”, ossia sentirsi nuovamente “parte lesa” durante il procedimento di denuncia, che, come abbiamo ormai capito anche dagli attuali fatti di cronaca, comporta biasimo, giudizio morale, etichettamento, analisi della propria moralità e via dicendo.

Se analizziamo la parola “vittima”, dal latino victima, capiamo come vi sia una convergenza di due termini: da una parte il termine “vincire “, che rimanda ad una condizione di immobilità, impossibilità di reagire tipica dei soggetti sacrificali; dall’altra abbiamo il termine “vincere“, ossia l’azione di colui che ha vinto all’interno di un conflitto. Al soggetto a cui viene imposta l’etichetta di “vittima”, perciò, non resta molto da fare; entrerà a far parte di un retaggio culturale sfavorevole, col quale è difficile empatizzare; una condizione di patimento che chiama le altre persone a prendere le distanze.

In letteratura ormai si tende infatti a parlare di “persona offesa”, piuttosto che di vittima, non solo per l’impatto che ha sulla società e quindi sul rischio di vittimizzazione secondaria, ma soprattutto per rispetto a quelli che possono essere ostacoli personali (la difficoltà a riconoscersi come vittima, per ciò che comporta, ossia sentirsi vulnerabili, deboli e indifesi) e socio-culturali (parametri “accettabili” per definire una vittima come tale, ossia quelli citati sopra).

Riassumendo: la persona offesa, oltre alle ripercussioni fisiche e psicologiche alla quale è stata sottoposta con il danno arrecatole, si troverà a dover pensare:

-alle difficoltà che incontrerà per ottenere giustizia;

-ai costi elevati da sostenere (in termini economici e di tempo)

-alla posizione scomoda che dovrà assumere (testimonianza all’interno del procedimento penale)

-al timore dell’insuccesso (non essere riconosciuta “parte lesa”)

-all’esposizione a nuove forme di vittimizzazione (la suddetta vittimizzazione secondaria) da parte delle istituzioni, dei media, della società.

Ci chiediamo ancora come mai le persone offese non denuncino subito l’accaduto? Siamo pronti a comprendere che vi è una netta distinzione tra quelle che noi consideriamo “vittime” che in realtà fanno parte di un retaggio arcaico di idealizzazione, e le “vittime reali”?

Tantissima strada c’è ancora da fare, perché spessissimo, per non dire sempre, chi si trova in questa condizione si trova a perdere la fiducia più volte: nell’altro, nelle istituzioni, nella società e, cosa più grave, in se stessa.

Pubblicato da Dr.ssa Cobianchi Desirèe

Psicologa, psicoterapeuta, mediatrice familiare

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