Autore: dott.ssa Desirèe Cobianchi – Psicologa Psicoterapeuta
Le comunità per minori sono sempre state negli anni soggette a stigma e critiche; probabilmente dovute al fatto che esse vengano associate agli ormai superati istituti, dove anche i bambini molto piccoli venivano inseriti, con gravi danni sul versante dell’affettività, attaccamento e rappresentazione di sé.
Le comunità per minori sono pensate per specifiche tipologie di ragazzi, spesso dai 14 ai 17 anni, ossia per quella fascia d’età che purtroppo non è molto gestibile dalle famiglie affidatarie, o non accettata, e che presentano quadri clinici ben precisi e difficoltà che solo una struttura comunitaria può cercare di superare. Talvolta possono essere accolti anche bambini più piccoli, che per motivi ben precisi non sono in grado di sopportare un affidamento familiare; si pensi ad esempio a bambini abusati, che potrebbero mettere in atto atteggiamenti sessualizzati nella nuova famiglia affidataria, vissuti di angoscia, rabbia e aggressività, che minerebbero la serenità del nucleo, specie se in presenza di altri minori.
Le comunità per minori, se ben gestite, possono davvero fare la differenza per quei minori che hanno una famiglia di origine in difficoltà, non presente e/o non adeguata, rischiando di lasciare il minore abbandonato a se stesso e mettendolo in pericolo di vita. Ovviamente, visti i recenti fatti di cronaca, la difficoltà delle strutture è riuscire a coordinare gli interessi del minore con obiettivi realistici e aspettative della famiglia, se presente.
Queste comunità non possono e non devono essere parcheggi per ragazzi in difficoltà, ma luoghi terapeutici di accoglienza, confronto tra pari e con professionisti, con figure adulte di riferimento con le quali sperimentare fiducia, sicurezza e affetto, essenziali per il loro percorso futuro al di fuori della struttura. Per questo non dobbiamo mai dimenticarci l’importanza della formazione; gli operatori hanno un ruolo cruciale nella buona riuscita dei progetti di vita di questi ragazzi, pertanto devono essere formati, supportati, supervisionati e seguiti in questo difficile compito che ricoprono.
Non possiamo lasciare al caso la scelta degli operatori, non possiamo lasciarli soli a confrontarsi con il disagio e con le provocazioni che ovviamente questi ragazzi mettono in atto, per la profonda sofferenza che portano dentro di loro, ma formare gli operatori ad essere empatici, a tollerare le frustrazioni, a non mettersi in simmetria con questi ragazzi che alla fine chiedono solo, seppur con modi non sempre chiari, di essere aiutati.